Gli uomini di Kanafani in fuga dalla Palestina

Pubblicato su minima&moralia (https://www.minimaetmoralia.it/wp/) una decina di anni fa, ripropongo qui il primo di una serie di articoli che avevo scritto sui narratori arabi contemporanei. Un articolo dedicato al grande scrittore palestinese Ghassan Kanafani e al suo romanzo Uomini sotto il sole. Molto è cambiato oggi, a guerra in corso, con la Striscia di Gaza ormai ridotta in macerie e il popolo palestinese prostrato dalle morti e dalla devastazione. Alcuni passaggi li scriverei del tutto diversi, è chiaro. Eppure penso che l’articolo da diversi punti di vista ancora qualcosa possa dirla, se letto in prospettiva. Consiglio, a chi fosse interessato, di entrare sul link della pubblicazione del 2013. Qui: https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/scrittori-arabi-contemporanei/. Tra i commenti si possono infatti trovare molti suggerimenti e consigli bibliografici di lettori molto più esperti di me su autori palestinesi e arabi in genere.

(6 Dicembre 2013)

Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani l’ho trovato a due euro in una libreria dell’usato ed è forse questo che me lo rende un po’ glorioso: il fatto che (almeno ai miei occhi) sia un ritrovamento e, in un certo senso, anche un libro sopravvissuto. Scritto nel 1963, la sua traduzione in italiano risale al 1991: poca o nulla speranza di trovarlo a scaffale in qualsiasi altro tipo di libreria.

Personalmente ho questo vizio. Se comincio a appassionarmi a qualcosa, ad esempio un autore i cui libri non si trovano più in giro,di quell’argomento divento una specie di fanatico fissato. È successo così per autori italiani come Bianciardi o Manganelli, di cui negli anni ’90 non si trovava quasi niente in commercio: per circa tre o quattro anni ho raccattato di tutto, scovandone i libri nei posti più impensati. Poi, pur continuando ad ammirarli, quando alcune case editrici hanno cominciato a ristamparne i volumi sono guarito e la mia fissazione per questi autori si è notevolmente calmata.

Kanafani è considerato uno dei maggiori scrittori palestinesi del ‘900. Rifugiatosi in Libano nel 1948 in seguito a quella prima guerra arabo-israeliana che gli arabi chiamano “la catastrofe”, ha poi vissuto in Siria e in Kuwait. Attivista del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina è stato assassinato nel 1972.

Uomini sotto il sole racconta il tentativo disperato di passare una frontiera, in pieno agosto, in mezzo a zone quasi desertiche, da parte di tre uomini in fuga dalla Palestina occupata e all’inseguimento di un futuro un po’ più dignitoso da assicurare a sé e alle proprie famiglie. Si tratta della frontiera tra Iraq e Kuwait, nei pressi di Basra (Bassora), in quella zona in cui le acque di Tigri e Eufrate proseguono ormai congiunte verso il Golfo Persico attraverso un esteso braccio d’acqua noto con il nome diShattel-‘Arab. Il romanzo racconta delle contrattazioni intavolate da tre palestinesi (Abu Qais, Asad e Marwàn) con uomini senza scrupoli che vendono loro la possibilità di passare in Kuwait da clandestini. E che, lo sanno gli stessi clandestini, con ogni probabilità li abbandoneranno in mezzo al deserto. L’esito è tragico: i tre faranno la fine dei topi, cotti a vivo dal sole incandescente nel chiuso di un’autocisterna vuota d’acqua in cui erano stati nascosti. Verranno così abbandonati di notte per strada, vicino a un deposito di spazzatura, proprio come può accadere nel Canale di Sicilia ai migranti di oggi, che muoiono per il sole e per la sete e i cui corpi vengono buttati fuori dai barconi a gonfiarsi d’acqua.

Uomini sotto il sole è libro essenziale e potente, di un realismo asciutto ma che ha una sua particolare capacità evocativa. È davvero il racconto/paradigma di una immane catastrofe, molto al di là delle vicende storiche dei palestinesi a cui il libro si riferisce: oltre a una catastrofe già consumata, insomma, ne sa raccontare tante altre a venire. Ma se è inevitabile che rievochi fatti realmente avvenuti e che continuano a ripetersi ancora oggi in aree geografiche contigue a quelle del romanzo, a leggerlo vengono anche in mente libri del tutto estranei, per geografia per lingua e per vicende narrate, al contesto arabo. Nella prefazione all’edizione italiana Vincenzo Consolo accostava ad esempio Kanafani a Hemingway, Faulkner o Steinbeck, penso per la sua capacità di collocare le vicende narrative nel cuore della Storia e dei maggiori conflitti politici che la attraversano. A me, invece, il libro ha ricordato soprattutto quei bellissimi racconti di Juan Rulfo raccolti in un volume dal titolo La pianura in fiamme.

È un accostamento molto opinabile, e forse del tutto incongruo, e appunto per questo particolarmente utile a farci su qualche buona pensata.

È innanzi tutto il titolo a stabilire una parentela tra i due libri. L’arida pianura dei racconti di Rulfo è in fiamme per l’arsura del clima e perché incendiata da una sorda violenza, della cui origine non si riesce nemmeno a recuperare memoria ma che pervade tanto le relazioni intime e private dei protagonisti quanto quelle pubbliche. Una violenza che sembra impastata con la terra stessa che gli uomini di Rulfo calpestano. I personaggi di Juan Rulfo sono eterni camminanti, quasi tutti uomini in fuga. Per lo più a causa di un crimine privato commesso o subito. Anche i personaggi di Rulfo attraversano terreni ostili, bruciati dal sole, spazzati da un vento asciutto, tra sterpi secchi e massi polverosi, di notte o di giorno, alla ricerca di una via di salvezza che è sempre irraggiungibile. Hanno dentro quella fibrillazione disperata che è propria degli animali braccati, ormai chiusi in un angolo, definitivamente in trappola.

E in una trappola vanno proprio a finire gli uomini di Kanafani, sotto il sole di quell’altra regione semidesertica, a mezzogiorno, in pieno agosto. Anche in questo caso c’è una pianura in fiamme per clima e violenza. Solo che qui la violenza ha una radice storica. Se ne possiede una memoria chiara e sarebbe (o sarebbe stata) perfino evitabile. Non è ancestrale e cieca, come avviene in Juan Rulfo (talmente cieca e ambigua da tollerare perfino che si travesta, in alcuni tra i più bei racconti dello scrittore messicano, di un’ironia beffarda). In Kafanani inoltre la violenza non è impastata alla terra: piuttosto la invade sopraggiungendo dall’esterno, e viene a inaridirla.

In Uomini sotto il sole le vicende che narrano il tentativo di passare la frontiera vengono interpolate da continui flashback: inserti con qualche lirismo che raccontano vicende appartenenti al passato dei protagonisti. Al centro di questi brani di memoria c’è quasi sempre la Palestina, i vicini di casa, il paese di origine, le famiglie abbandonate. Qui la perdita si può nominare. La violenza arriva a sconvolgere le vite ma non è stata cercata. Nel ricordo dei protagonisti la terra d’origine non significa agonia e sangue, ma ha l’odore buono delle mogli, “di una donna che si era appena lavata con acqua fresca e che gli accosta i capelli ancora umidi, coprendogli il viso”.

Il pericolo a cui va incontro ogni profugo è incastrarsi nel ricordo della propria terra perduta in una prolungata attesa che paralizza. Ed è quello di cui si accorge a un certo punto uno dei tre uomini, Abu Qais, quando decide di tentare l’avventura verso il Kuwait: “Negli ultimi dieci anni non hai fatto altro che aspettare. Ti ci sono voluti dieci lunghi anni di fame per capire che hai perduto i tuoi alberi, la tua casa, la tua giovinezza e tutto il villaggio. In questi lunghi anni la gente è andata avanti per la sua strada, mentre tu te ne stavi accovacciato come un cane in una casa miserabile. Che ti aspettavi? Che piovesse giù la ricchezza dal tetto? Casa tua? Ma quale casa tua? Un uomo generoso ti aveva detto: «Abita qui!». E dopo un anno: « Dammi metà della stanza», così hai appeso qualche sacco rattoppato tra te e i nuovi vicini. E sei rimasto accovacciato finché non è arrivato Sa’d e ha cominciato a scuoterti come si scuote il latte per fare il burro”.

Sa’d è uno di quelli che è riuscito a scappare in Kuwait e lì ha fatto fortuna. È uno di quelli che al ritorno ostentano la ricchezza acquisita contribuendo a creare il mito di un paese straniero per raggiungere il quale vale la pena affrontare qualsiasi tipo di rischio. Così, al confine, lungo lo Shattel-Arab, prima di prendere a piene mani il coraggio e provare a passare di là con qualsiasi mezzo disponibile, Abu Qais si ritrova a immaginare quell’eden di ricchezza che il Kuwait rappresenta per questi uomini. Ma è un ideale senza speranze e privo di reale forza di desiderio. Simbolicamente, sono gli alberi, quelli che gli sono stati sottratti, a rappresentare la pienezza dell’appartenenza. E il Kuwait ne è del tutto privo: “Al di là di quello Shatt, appena più in là, c’erano tutte le cose di cui era stato privato. Laggiù c’era il Kuwait… Là esisteva tutto ciò che nella sua mente era solo sogno e fantasia. Indubbiamente, laggiù esistevano cose reali fatte di pietra, di terra, di acqua e di cielo, non come quelle che gli passavano per la sua povera testa… Ci dovevano essere certo vicoli e strade, uomini e donne, e bambini che correvano tra gli alberi… No, no, alberi non ce n’erano. Sa’d, l’amico emigrato laggiù, che aveva lavorato da autista ed era tornato con soldi a palate, diceva che laggiù alberi non ce n’erano. Gli alberi stanno nella tua testa, Abu Qais, nella tua testa vecchia e stanca”.

L’uso simbolico di elementi legati alla terra e al clima (l’aridità del paesaggio, l’umidità della terra/sposa, gli alberi) sembra da sempre strutturare i racconti, in questa porzione di mondo attraversato nei secoli da mille conflitti. Le storie sembrano segnate sul territorio e attraversando il territorio non puoi che ascoltare storie. Così, l’immagine della terra-sposa i cui capelli bagnati di acqua coprono il viso dell’uomo palestinese, posta proprio in apertura di Uomini sotto il sole, potrebbe essere la traduzione letteraria e poetica di una rivendicazione territoriale: di una terra che era sposa a quel popolo, in un legame reso sacro da un vincolo cerimoniale.

Essendo un lettore per null aaddentro a vicende mediorientali non voglio spingermi troppo in là con le considerazioni. Ma l’immagine della terra-sposa di Kanafani mi ha ricordato, per contrappasso, lo stretto legame che intercorre tra territorio e narrazione in libri sacri come l’Antico Testamento. Ne sembra quasi una risposta per le rime. Ad esempio a quel salmo famoso, il 132, in cui dell’unguento profumato scende dal capo di Aronne fino alla barba e poi all’orlo della sua veste. Come la rugiada del Monte Hermon sui monti di Sion, specifica il salmo. Che sarebbe da interpretare, secondo quanto mi aveva suggerito una volta uno studioso di cose bibliche che conduceva me e un gruppo di altri ragazzi (quando ancora eravamo ragazzi) in giro per la Palestina, proprio in chiave geopolitica. In quanto l’Hermon è il monte da cui nasce uno degli affluenti principali del fiume Giordano, che scende lungo la terra promessa come sulla barba di Aronne fino a giù, fino alla veste, irrorandola e inondandola di profumi, e dunque rendendola fertile.

Viene così in mente il ruolo che il controllo delle acque ha avuto nelle guerre arabo-israeliane, che per buona parte sono state anche guerre per la conquista e il controllo delle sorgenti che garantiscono l’irrigazione delle terre poste a valle. E la stessa rivendicazione di unità territoriale del popolo israeliano su quella terra irrigata dal fiume sembra quasi radicarsi in un siffatto passo biblico. È come se in questo legame tra narrazione e terra, le storie, anche le più antiche, venissero fatte funzionare nell’attualità in una attribuzione di senso che fa presto, un po’ troppo in fretta, ad assumere significato politico.

Portarsi Kentridge a scuola

“Dovrei portarmela a scuola”, pensavo visitando You Whom I Could Not Save, esposizione di lavori del grande William Kentridge con un’installazione site specific, realizzata apposta per gli spazi del Monte dei pegni di Santa Rosalia a palazzo Branciforte, una delle strutture architettoniche più affascinanti di Palermo. (https://www.palazzobranciforte.it/)

Palazzo Branciforte – Monte di Santa Rosalia-msu-1882 – Image: Matthias Süßen (matthias-suessen.de) Licence: license CC BY-SA via Wikimedia Commons

I magazzini dell’ottocentesco Monte dei pegni, da diversi anni diventati visitabili, sono enormi strutture in legno, alte più di dieci metri, in cui venivano depositati gli averi più poveri, lasciati in cambio di pochi soldi: materassi, lenzuola, biancheria personale. Spesso questi poveri beni familiari venivano portati al Monte allo scopo di racimolare i soldi per potere emigrare, e dunque sapendo che non sarebbero stati riscattati mai più.

Se fossero delle opere grafiche gli spazi del Monte sarebbero molto simili alle Carceri di Piranesi. Ma credo che a Kentridge queste enormi strutture lignee abbiano fatto venire in mente piuttosto la pancia di una grande nave.

Quella che ha ideato per il Monte è stata un’installazione prima di tutto sonora, lasciando intatte e vuote le scaffalature, con solo dei grandi altoparlanti che diffondevano una bellissima creazione musicale di Nhlanhla Mahlangu, composta per sette voci femminili che cantavano nelle lingue nguni dell’Africa meridionale. In una sala laterale più raccolta intanto era stato collocata una video-installazione ispirata a storie di viaggi e fughe via mare, ibridazioni e meticciamenti.

Negli altri spazi del piano nobile del palazzo come le sale espositive e la biblioteca, riprogettati da Gae Aulenti , sono stati esposti diversi lavori inediti di Kentridge, realizzati per questo evento di Palermo su vecchi fogli contabili o anche semplici libri.

Lavori realizzati su antiche carte geografiche e vecchie opere video di Kentridge , veri e propri film d’animazione fatti disegnando sulle pagine dei libri, si potevano invece vedere nella grande sala espositiva del piano terra, la Cavallerizza, dove è ospitata la collezione archeologica della Fondazione Sicilia. Tra queste opere video: “De como não fui Ministro d’Estado” (https://www.youtube.com/watch?v=nxGrazdl9WY).

Kentridge a scuola

Mi volevo portare Kentridge a scuola, dicevo. Non solo accompagnare le classi in cui insegno a visitare la mostra e l’installazione ma portare a scuola qualcosa di quell’esperienza. Era la fine di ottobre e si avvicinava la settimana di Libriamoci, ormai un appuntamento fisso per molte scuole. Una settimana interamente dedicata ai libri e alla lettura. Cercavo qualche buona idea da proporre quest’anno a studenti e studentesse e ho pensato proprio a William Kentridge: saremmo andati a visitare la mostra e poi ce la saremmo portata a scuola.

Avremmo letto pagine di alcuni libri di avventure e viaggi per nave, partenze, fughe e naufragi. Altri vecchi libri, raccattati da qualche parte, li avremmo scarabocchiati, tagliati, fatti a pezzi e ricomposti. Avremmo recuperato vecchie carte geografiche ormai dismesse e ci avremmo disegnato sopra, proprio come avevamo visto fare a William Kentridge. Con il prof di musica la classe avrebbe anche realizzato una sonorizzazione ispirata all’installazione. Avremmo recuperato storie di emigranti siciliani in America. Avremmo utilizzato le letture come ispirazione per le opere creative che gli studenti avrebbero realizzato su libri e carte geografiche e ci sarebbe stato spazio anche per tirar dentro un film come Io capitano di Matteo Garrone, che in quei giorni le classi della scuola avevano visto al cinema.

Quella che segue è una galleria dei lavori realizzati in quei giorni, che abbiamo poi esposto durante l’open day della scuola come in una vera e propria galleria d’arte contemporanea.

[Altri appunti sulla scuola li trovi qui: https://www.mariovalentini.net/category/c-e-vita-tra-i-banchi/]

Il gusto di Alberto Sordi per l’arte contemporanea

Le vacanze intelligenti è il terzo episodio, diretto e interpretato da Alberto Sordi, del film collettivo Dove vai in vacanza?, del 1978. Gli altri due episodi sono di Mauro Bolognini e Luciano Salce.

Racconta di una coppia di fruttaroli romani, interpretati da Sordi stesso e da Anna Longhi, che viene costretta dai propri figli, ormai vicini alla laurea e avviati a una carriera da professionisti, a fare una vacanza culturale in Italia. Lui si chiama Remo, lei Augusta. Uno dei figli, futuro medico, li mette anche a dieta. I due si ritrovano così a visitare la Biennale di Venezia del 1978, quella vera, con le vere opere esposte quell’anno. Augusta, corpulenta e appesantita, va inciampando su opere dislocate per terra. Stanchissimi, si appoggiano a un muro per riposare un po’ e vengono rimproverati da una maschera perché quello che in effetti sembra un semplice muro è invece un’opera d’arte. Si accodano a un professore che guida un gruppo di visitatori spiegando il senso delle opere. Augusta chiede a Remo: «Ma che dice quello?». E lui: «E che dice… spiega! Spiega le cose che noi non potemo capì». Di fronte a una serie di grandi imbuti ribaltati, Augusta chiede a Remo: «Ma che sò?». E Remo: «Sò imbuti, ni vedi?». Augusta: «Pure io li metto così quando spiccio ‘a cucina». E Remo: «Ma che cazzo c’entra ‘a cucina? È ‘na scultura, stamo alla Biennale, Augù!». 

La visita va avanti. Arrivano in una sala dove c’è un recinto con delle pecore vive. I due pensano di essersi sbagliati, vogliono uscire. Dicono: «È ‘na stalla!». La massa dei visitatori che avanza li ricaccia dentro. Uno dice loro che non è una stalla ma si tratta di un’opera israeliana. Di fronte alla riproduzione fedelissima di una donna nuda, il professore spiega: «È quasi traumatizzante l’incontro con John DeAndrea. Si tratta come ben vedete di un calco in poliestere fatto su una autentica ragazza, la cui vivezza è accentuata dalla meticolosità, come questi veri capelli, questo vero tappeto. Un realismo che trapassa in un superiore, conturbante realismo». Remo si avvicina per guardarla meglio, Augusta gli dice: «Ma ’ndo vai? lasciala stà!». E Remo: «Augù, è mica vera!». E Augusta: «Vera o finta, è sempre ‘na zozzona!».

Due personaggi di Duane Hanson

A un certo punto la situazione si ribalta. Nello scambio di ruoli tra esseri viventi e statue, statue e esseri viventi, il tutto si incasina e succede che la coppia, anzi a dir la verità la sola Augusta, venga scambiata per una delle statue, diventando una scultura in tutto simile a quelle che in quegli anni realizzava Duane Hanson. Riceve da uno dei visitatori pure una quotazione. 

Duane Hanson, sculptor, at the Whitney Museum, February 1978 – Bernard Gotfryd photograph collection (Library of Congress) –

Augusta e Remo entrano infatti in una sala dove c’è un’installazione con una sedia vuota sotto una palma mossa da un vento artificiale. Augusta è stanchissima e affamata, vorrebbe fermarsi a riposare. Remo le chiede: «Ma che te senti?». E lei: «Tutto. Ho sete, fame, me si so’ gonfiati i piedi». Remo: «Augù, ce sarà un posto qua dentro dove prendere un caffè». E Augusta: «Un maritozzo!». Remo: «Tutto quello che voi. Armeno ce mettemo a sède». 

Senza capire che quella sedia fa parte di un’installazione, Remo invita Augusta a sedersi mentre lui va a recuperare qualcosa da mangiare e da bere. Lei si siede allungando le gambe e chiudendo gli occhi. Subito dopo entra un altro gruppo di visitatori. Si fermano a guardare l’installazione scambiando Augusta per una scultura iperrealista. C’è una coppia di raffinati borghesi che si considerano intenditori d’arte. La donna dà un titolo all’installazione con Augusta seduta: Sedia con corpo adagiato. L’uomo afferma che è un’opera originale e che lui per 18 milioni la comprerebbe. Altri visitatori fotografano l’opera. Quando arriva Remo, Augusta riapre gli occhi e dice: «E porca mignotta! Ma chi so’ questi? Me stanno a fotografà!». Remo si rivolge ai visitatori dicendo: «Questa è la mia signora, che state a fotografare?». E poi, verso Augusta: «Ma non glielo potevi di’ che non sei ‘na statua? ». E rivolgendosi di nuovo al pubblico: «Che è mica la donna nuda questa!».

Il gusto di Alberto Sordi per l’arte contemporanea

Tutti i commenti che ho intercettato sul film dicono, un po’ superficialmente, che il film è una presa in giro dell’arte contemporanea e della sua astruseria, ma a me non sembra così scontata e univoca questa lettura.

Il film, certo, prende di mira il mondo dell’arte, di cui stigmatizza tic e intellettualismo un po’ vacuo. Ma nemmeno i fruttaroli ci fanno una gran figura, incapaci come sono di comprendere l’ambiguità dei segni. Il film certifica comunque che tra il senso comune dei fruttaroli e le invenzioni degli artisti si è creato un vero e proprio corto circuito. Dunque gli artisti, in qualche modo, fanno anche centro, colpiscono il bersaglio. 

Se Remo come personaggio è del tutto asciutto di arte contemporanea, e non ne comprende dinamiche e strategie, in quanto regista Sordi sembra quasi sintonizzarsi con i procedimenti compositivi degli artisti. Non crea soltanto delle fantastiche situazioni comiche, con accurate inquadrature riproduce immagini tipiche dell’arte visiva di quegli anni. In una di queste inquadrature ci sono due tele grandissime completamente bianche. Un uomo di spalle fissa immobile quel bianco a due passi dalla tela. Sembra proprio una installazione e quell’uomo sembra una scultura che fissa una tela bianca. Ma l’uomo improvvisamente si muove e va via. Sono allora Remo e Augusta ad avvicinarsi alla tela e a fissare immobili la grande superificie bianca senza capire cosa ci sia da guardare. Un’altra installazione allora prende forma sullo schermo cinematografico, leggermente diversa dalla precedente. 

Per questo l’episodio di Sordi a me sembra quasi un vero e proprio omaggio, ammirato e sincero, a uno come Duane Hanson. Remo e Augusta sono proprio due sculture di Hanson vive, animate e in movimento. Aggirandosi spaesate tra le sale espositive, di cui non capiscono sottotesti, concetti e linguaggio, queste statue vive a loro volta mettono sottosopra e ribaltano la sala espositiva, cominciando a giocare, inconsapevoli, lo stesso gioco degli artisti. Molto meglio di quanto non facciano le pecore vive che belano. 

Si sospetta che senza una Augusta o un Remo, incapaci di comprendere il gioco di spiazzamenti e ricodificazioni degli artisti, quelle opere rimarrebbero lettera morta. Sordi ci regala due perfetti incompetenti di arte contemporanea. Con accenti, tra l’altro, di grande tenerezza. Il film infatti tocca anche note sommesse, soprattutto quando racconta il rapporto tra i due fruttaroli e i loro figli.

Remo e Augusta allora, dicevamo, sono i due visitatori ideali. Scombinano e destabilizzano la normale codificazione degli spazi tanto bene quanto fanno gli artisti. L’effetto non è tanto la presa in giro degli uni o degli altri. L’effetto vero è la concreta, perfetta realizzazione degli intenti programmatici degli artisti in mostra alla Biennale. Che devono avere dunque, per fare centro, come ospiti delle sale, non un pubblico di gente perfettamente a proprio agio nel sistema dell’arte. Ma due inconsapevoli spettatori. Allora gli spazi e i codici deragliano veramente e il progetto degli artisti contemporanei trova piena realizzazione.

Ed è allora che Alberto Sordi, il regista, non l’interprete del personaggio Remo, ci appare come un perfetto intenditore.

Se queste considerazioni hanno un minimo di senso, quel che bisogna concludere è dunque che se c’è uno che davvero ha compreso come andavano considerate, lette, attraversate quelle opere e quegli spazi, questo è Alberto Sordi. Il quale mira certo alla satira. Ma, facendo in modo che Remo e Augusta si aggirino per le sale della Biennale, duplica e rilancia anche il lavoro degli artisti. Raddoppia insomma la posta sul piatto, portando in scena i visitatori perfetti affinché quelle opere agiscano nello spazio e in rapporto al pubblico al massimo della loro potenza.

Dibattito in classe

Di recente, nella terza media in cui insegno Italiano, siamo arrivati a parlare dei complementi di agente e di causa efficiente. Dopo avere chiarito che gli esseri animati vengono considerati dalle grammatiche complementi d’agente e quelli inanimati complementi di causa efficiente, ho chiesto per scherzo alla classe come avremmo dovuto fare l’analisi logica se avessimo trovato in una frase passiva un robot o un’intelligenza artificale. Li avremmo dovuti considerare complementi d’agente o di causa efficiente? Non immaginavo che si sarebbero create due fazioni nettamente in contrasto e che la questione avrebbe scatenato un reale e infervorato dibattito tra i sostenitori dell’una e dell’altra opinione. Così ho chiesto a ognuno dei due gruppi in cui si era divisa la classe di scegliere un proprio rappresentante ufficiale che, dopo essersi opportunamente documentato, pronunciasse in aula un discorso in difesa del proprio punto di vista, cercando di convincere i sostenitori della fazione avversa e soprattutto gli indecisi o chi  non si era schierato da nessuna delle due parti. Non avevamo parlato ancora in classe del testo argomentativo, hanno lavorato d’istinto. A quel punto, però, a dibattito concluso, abbiamo letto dal libro caratteristiche e strategie dell’argomentazione, analizzando innanzitutto quel che veniva soddisfatto e quel che mancava nei testi prodotti dai due compagni di classe. La classe poi ha votato di nuovo per l’una o per l’altra opinione. L’esito è stato molto più incerto rispetto alla prima votazione: ha vinto per un solo voto il complemento di causa efficiente. E voi? Per quale dei due complementi propendete? E quale tra i due discorsi vi convince di più?

Li potete leggere qui di seguito, per come sono stati pronunciati ad alta voce da G. e da F. Li trovate anche sul blog della classe [che si può leggere a questo link: https://unsorrisoallalettura.altervista.org/]. 

Primo discorso – in cui G. sostiene che nelle frasi passive robot e intelligenze artificiali vanno trattati come complementi di causa efficiente

I robot e le intelligenze artificiali (Alexa, Siri etc.) secondo me sono complementi di causa efficiente.

Definizione:

L’intelligenza artificiale è l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività. La vita 3.0 che si sviluppa nell’era dell’intelligenza artificiale, autonomamente, progetta il proprio hardware e il proprio software” e non è più legata alla materia organica che costituisce il corpo di quelli che abitualmente chiamiamo viventi.

Differenza tra robot e cyborg:

La componente vivente è ciò che separa un cyborg da un robot. Ciò significa fondamentalmente che un cyborg è vivo mentre un robot no. Anche se alcuni robot possono simulare certi aspetti degli esseri viventi, essi non sono mai veramente vivi. Un robot è in grado di fare ciò per cui è stato programmato mentre un cyborg, in particolare i cyborg umani, esercitano il libero arbitrio sulle proprie attività. I robot in generale e le intelligenze artificiali sono macchine automatizzate, cioè rese autonome dalla tecnologia e che hanno bisogno di un intervento minimo dell’uomo. In più non possiedono alcuni dei sensi (tatto, gusto, olfatto), sentimenti e emozioni, non hanno una mente e pensieri, e in generale non possono essere paragonati all’uomo. I robot anche essendo autonomi rispondono ai voleri dell’uomo e sono costruiti e programmati da esso, e sono quindi oggetti. I robot hanno una vita infinita a differenza degli uomini.

Quindi al giorno d’oggi i robot non possono essere chiamati animati, dal momento che, anche se in minima parte, dipendono dall’uomo. Infine, essendo oggetti, dal punto di vista grammaticale in una frase passiva dovrebbero costituire un complemento di causa efficiente. On-line ci sono alcuni siti che affermano che in analisi logica i robot e le intelligenze artificiali sono complementi di causa efficiente. Per esempio se andiamo al sito “www.analisilogicaonline.it”, che ti fa fare l’analisi logica di una frase, e scriviamo “Samuele è stato battuto da un robot” il sito classificherà in questo modo la frase:

Samuele: soggetto

è stato battuto: predicato verbale

da un robot: complemento di causa efficiente

Inoltre in analisi grammaticale le parole “robot” e “intelligenza” sono nomi comuni di cosa.

Secondo discorso – in cui F. sostiene che nelle frasi passive robot e intelligenze artificiali vanno trattati come complementi d’agente

Vorrei cominciare leggendo la definizione di complemento d’agente e di causa efficiente data dall’Accademia della Crusca:

Secondo un approccio classico all’analisi sintattica, in presenza di un verbo in forma passiva, il complemento d’agente indica colui che compie l’azione espressa dal verbo, ovvero il soggetto della frase attiva, l’agente. L’analisi logica distingue tra complemento d’agente e di causa efficiente. Si parla di complemento d’agente quando chi svolge l’azione è un’entità animata (persona o animale), es. La preda è stata inseguita dal lupo. In presenza di un’entità non animata (un oggetto, un fatto o un’entità astratta), si ha invece un complemento di causa efficiente, in quanto causa che produce l’effetto, es. La porta è stata aperta dal vento.

Sempre l’Accademia della Crusca, però, dice:

L’animatezza è dunque il parametro in base al quale si può distinguere il complemento d’agente da quello di causa efficiente. Si tratta di una nozione intuitiva e al contempo di difficile definizione, comunemente associata all’idea della vita in sé e quindi a concetti a essa relati quali il movimento, l’essere senziente, ecc. (Yakamoto, 1999). Esistono entità che presentano una classificazione ambigua, poiché si trovano, nella nostra percezione della realtà, in una condizione che oscilla tra animato e non animato. Ne sono un esempio le piante. In frasi come L’ossigeno è prodotto dall’aloe durante la notte trattiamo la pianta (aloe) come un complemento d’agente o di causa efficiente?Per quanto il concetto di animato di solito coincida con quello di essere vivente, la collocazione del regno vegetale nella categoria semantica dell’animatezza risulta controversa. Secondo Treccani i minerali e i vegetali apparterrebbero alla categoria inanimato, in quanto privi di vita animale. Il GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso) invece non include le piante nella categoria inanimato, ma soltanto i minerali e tutto ciò che è privo di vita. Le piante non sono le uniche entità di cui è difficile stabilire l’animatezza. Complicano ulteriormente il quadro quei nomi non umani di per sé, ma che indicano gruppi di uomini (governo, classe, partito, ecc.), nonché le parole che si riferiscono a oggetti tecnologici come computer, lettore ottico, ecc., che compiono azioni sebbene non siano entità animate.

Perciò l’Accademia della Crusca non dà indicazioni precise al riguardo. Io vorrei quindi convincervi che nel caso di nomi quali robot, intelligenza artificiale, automa, siamo davanti a complementi d’agente, e non di causa efficiente. Per prima cosa quindi vorrei leggere le definizioni di queste tre parole. A cominciare da robot.

Definizione di robot:

Ad oggi potremo definire ‘Robot’ un sistema elettromeccanico riprogrammabile, dotato di capacità di percezione e di un’intelligenza propria, predisposto per compiere un ampio numero di compiti diversi.

      Consiglio regionale della Toscana

Continuo leggendovi la definizione di intelligenza artificiale:

L’intelligenza artificiale (IA) è l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività. I sistemi di IA sono capaci di adattare il proprio comportamento analizzando gli effetti delle azioni precedenti e lavorando in autonomia

European Parliament

A sostegno di questa definizione vorrei fare degli esempi. Per quanto riguarda “una macchina in grado di mostrare capacità umane quali il ragionamento” vorrei portare l’esempio del sistema di guida assistita delle macchine che frenando, cambiando corsia, parcheggiando autonomamente fanno una sorta di ragionamento elaborando i dati che gli vengono dati.

Per quanto riguarda la capacità di apprendimento vorrei portare l’esempio di Alexa, perché penso che l’abbiamo o almeno la conosciamo tutti. Ci sono alcune domande a cui tutte le Alexa risponderanno allo stesso modo. Se io chiedo ad  Alexa qual è la sua canzone preferita, mi risponderà: “il cielo è sempre più blu” di Rino Getano, e così faranno tutte le altre Alexa italiane. Ma se io chiedo ad Alexa di “mettere musica” senza specificare il tipo di musica o l’autore, ogni Alexa metterà una canzone diversa, a seconda dei gusti del suo proprietario. Ho infatti chiesto ai miei compagni M. e L. di mandarmi un audio dove chiedevano alle loro Alexa di “mettere musica”.

Alla mia richiesta Alexa ha mandato questo audio:

Alla richiesta di M. invece Alexa ha mandato musica trap e a quella di L. una canzone di Ligabue.

Questo dimostra che una volta progettate, programmate, vendute e comprate, le Alexa si svilupperanno ognuna autonomamente, in maniera diversa dalle altre.

Proseguo leggendovi la definizione di automa.

Definizione di automa:

1.Macchina che riproduce i movimenti (e in genere anche l’aspetto esterno) dell’uomo e degli animali. Quindi, fig., persona priva di volontà propria, che agisce o si muove macchinalmente senza coscienza dei proprî atti: camminava come un a.; sembrare, ridursi un automa. 2. In cibernetica (in partic. nella teoria generale degli a.), sistema definito da un insieme di segnali di entrata, di stati interni e di segnali di uscita, e tale che per ogni segnale in entrata fornisce un segnale d’uscita dipendente dallo stato interno in cui il sistema stesso si trova. 

dalla Treccani

Infine vi leggerei la voce “animazione” del vocabolario, in quanto chiave per capire definitivamente se possiamo intendere un robot, un’intelligenza artificiale o un automa, complementi d’agente.

Definizione di animazione:

animazióne s. f. [dal lat. animatio -onis, der. di animare (v. animare); nel sign. 2, con influenza del fr. animation]. – 1. a. L’infondere o il ricevere l’anima, la vita: l’a. della creta, da parte di Dio, per la creazione di Adamo; estens.: a. delle cose, del paesaggio, da parte di un artista, di uno scrittore. b. L’opera, l’attività di animare, con riferimento agli usi specifici di animatore (v.): a. dei giochi, a. di attività culturali, a. dei villaggi turistici, e simili. 2. Più com. fig., vivacità, calore, affollamento vivace: parlare con grande a.; discutere con a.; una festa priva di a.; c’era un’insolita a. per le strade; talora entusiasmo, slancio o agitazione dell’animo: i suoi occhi accesi tradivano una singolare animazione. 3.tecnica cinematografica mediante la quale vengono ripresi con speciale apparecchio fotogrammi di disegni o di oggetti inanimati rappresentati, o collocati, in posizioni di lievi spostamenti successivi, così che nella proiezione diano poi allo spettatore l’impressione di un vero e proprio movimento; è una tecnica particolarmente adoperata per i cosiddetti disegni animati e in genere per i film di animazione. 

     dalla Treccani

 

Non so se qualcuno di voi da piccolo ha mai disegnato lo stesso personaggio su diverse pagine di un quadernetto  spostandolo di un millimetro ad ogni pagina, per poi sfogliare il quadernetto e vedere il personaggio muoversi. Questo, a quanto detto dal terzo significato di animazione, è animare quel personaggio. Ogni disegno, preso singolarmente, è indubbiamente inanimato, ma una volta sfogliato il quadernetto si animerà. E si animerà non nel senso di metterci l’anima, perché io in quel disegno non ci metto l’anima, non gli faccio provare delle emozioni, eppure, secondo il terzo significato di animazione, lo animerò.

Non so se voi avete mai visto un robot, io l’ho visto, per esempio, durante la giornata dell’orientamento (l’aveva portato l’Euroform). Una volta attivato, questo robot ha cominciato a ballare, poi è caduto e ha detto: “Oh! Sono caduto. Adesso mi rialzo”. Non è riuscito a rialzarsi perché non aveva abbastanza spazio, e ha detto: “Non riesco a rialzarmi, dovrò aspettare che qualcuno mi aiuti”. Ora, quando io ho visto questo robot non è che ho pensato: “Guarda che bravi i ragazzi dell’Euroform che hanno progettato questo robot in modo che sappia ballare e parlare!”. Ho pensato: “Guarda che simpatico questo robot che sa parlare e ballare!”.

Io quindi direi che un robot, un’intelligenza artificiale ed un automa, si possano considerare animati secondo il terzo significato di animazione in quanto ci danno l’illusione di movimento e di vita, proprio come il personaggio sul quadernetto, e che quindi siano complementi d’agente.

                                                                                                                             

Ridere a Natale

Nel volume 1 di Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, prima di analizzare il passo in cui Dante incontra Farinata e Cavalcante nel canto decimo dell’Inferno, Auerbach dedica un capitolo al Mystère d’Adam.

Si tratta di una rappresentazione liturgica della fine del XII secolo, di area linguistica anglo-normanna, conservata in un unico manoscritto, che alterna a didascalie latine dialoghi in volgare francese. Faceva parte di un’ampia rappresentazione natalizia che, dopo il dialogo tra Adamo ed Eva analizzato da Auerbach, metteva in scena anche l’assassinio di Abele e infine la processione di profeti che annunciano la venuta di Cristo.

Auerbach analizza gli elementi di realismo rintracciabili nel testo mettendo in evidenza come, dopo averla vista parlare con il serpente, Adamo si rivolga a Eva “come potrebbe fare un contadino o un borghese francese, che tornando a casa vede qualche cosa che non gli va”. Prova quindi a dimostrare come un testo del genere riesca a coniugare lo stile illustre o sermo sublimis di tradizione classica con lo stile basso o sermo humilis, riuscendo a immettere “il fatto sublime” nella vita quotidiana dei “semplici” e della gente comune, affermando infine che “l’elemento quotidiano realistico è dunque essenziale nell’arte medievale-cristiana e specialmente nella rappresentazione drammatica cristiana […]”.

Tentazione di Adamo e Eva (Masolino, 1424-1425)

Nel Mystère d’Adam, dice Auerbach, gli elementi realistici sono ancora contenuti a un dialogo tra marito e moglie, tra moglie e seduttore, niente a che vedere con quel realismo farsesco, crudo e grossolano, che si ritroverà in testi più tardi. Probabilmente è proprio dal XII secolo che cominciano a prender piede i misteri farseschi, se la badessa e scrittrice Herrad von Landsberg già in quegli anni si lamenta di come le rappresentazioni liturgiche diventino sempre più rozze. Ma è nel XV secolo che tale processo raggiunerà il culmine per poi tramontare, sotto il fuoco incrociato di autorità ecclesiastiche, critiche degli umanisti e rigori delle chiese riformate.

Quindi Auerbach, in mezza pagina, ci regala un ampio campionario di scene e situazioni tratte dai Misteri tardo-medievali, con rivisitazioni comiche e riscritture realistiche dei passi del Nuovo Testamento, dalla Natività alla Passione. Riporto per intero il brano:

“Cominciamo con la nascita nella stalla di Betlemme, dove non si trovano soltanto il bue e l’asino ma qualche volta anche levatrici e comari (con i realtivi discorsi) e dove succedono ogni tanto dei fatti piccanti tra San Giuseppe e le serve. Anche l’annuncio fatto ai pastori, l’arrivo dei Re Magi, la strage degli innocenti vengono ampliati realisticamente; ancora più ardite e indecenti per il gusto posteriore sono le scene che si riferiscono alla Passione: i discorsi rozzi e talvolta buffoneschi dei soldati durante l’incoronazione di spine, la flagellazione, la via crucis, la crocifissione stessa (il sorteggiare le vesti, la scena di Longino, ecc.). Fra le scene che si riferiscono alla Resurrezione, è specialmente quella della visita delle tre Marie all’unugentarius per comperare gli unguenti per il corpo di Cristo, che si trasforma in una scena di mercato, e la gara di corsa degli apostoli verso la tomba (secondo Giov. 20: 3, 4) è uno spasso. La rappresentazione della Maddalena, nel più dolce peccare, è qualche volta particolareggiata ed esatta, e nella processione dei profeti si trovano pure alcune figure che offrono occasione per una scena grottesca (Balaam e l’asino). Questo elenco è molto incompleto; ci sono conversazioni tra operai che (ad esempio nella costruzione della Torre di Babele) parlano del loro lavoro e dei tempi cattivi, ci sono scene rumorose e grossolane all’osteria, ci sono scherzi e oscenità in abbondanza […]”.

[Sui vangeli comici, tra questi taccuni, vedi anche: qui https://www.mariovalentini.net/vangeli-nuovissimi-quodlibet/ e qui https://www.mariovalentini.net/ridere-a-pasqua/ ]

Pieter Bruegel the Elder – The Census at Bethlehem- 1566

BUON NATALE PERFIDIA

Dal 17 Novembre è disponibile in libreria Buon Natale Perfidia, pubblicato da Exòrma.

https://www.exormaedizioni.com/catalogo/buon-natale-perfidia/

Oltre a essere un’antologia a tema, che si propone come succosa e non banale strenna natalizia anche grazie alle belle illustrazioni che accompagnano i racconti, è una vera e propria geografia del catalogo Exòrma.

Vi si trovano infatti contributi di molti autori presenti con propri titoli nel catalogo della casa editrice, per la quale personalmente ho pubblicato nel 2018 il romanzo La minuscola (qui qualche notizia: https://www.exormaedizioni.com/catalogo/la-minuscola/ ).

Questo un breve estratto dal sito di Exòrma e dalla seconda di copertina a presentazione di Buon Natale Perfidia:

Ventitré racconti per lo più comici, esilaranti, svagati, poetici sì, ma anche cinici, problematici o addirittura perturbanti, e ventitré illustrazioni.
Qui si narrano Natali inaspettati tra fantasmi salutisti, Babbi Natale precari, imprese dannunziane, crisalidi natalizie e cronisti inaffidabili (cosa è successo veramente la notte in cui è nato Gesù?).

https://www.exormaedizioni.com/catalogo/buon-natale-perfidia/

I cronisti inaffidabili sono proprio quelli di cui parla il mio racconto, nel quale vi svelerò cosa dicono davvero i vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni della nascita di Gesù e dunque del suo natale. Ve lo anticipo. A seconda di quale vangelo si legga: niente, o molto poco, o comunque cose del tutto diverse l’uno dall’altro.

Ma ciascun autore avvicina il Natale con sguardo personale e sorprendente. Tra di loro ci sono anche molti amici, che è bello ritrovare, ognuno con il proprio stile singolare e il particolare modo fantastico che li contraddistingue.

C’è Orletti ad esempio, che racconta un’impresa dannunziana fallita proprio la notte di Natale. E c’è Morelli, che narra di una picaresca avventura giovanile durante la quale, sbarcato a Palermo il giorno  di Natale con un turbante in testa, proveniente dall’Africa, un giovane viaggiatore male in arnese viene scambiato per un imam. E c’è Tonietto che, in un componimento gozzaniano, rievoca in versi tante buone cose di pessimo gusto legate al Natale. E Maccari, a cui un brindisi natalizio svela finalmente qualcosa di decisivo per chiudere i conti una volta per tutte con una storia d’amore finita male. E Adrian Bravi, che racconta delle feste natalizie estive di un ragazzino argentino, passate con i sandali ai piedi tra malavitosi, oppostiori dei regimi militari degli anni Settanta e risse con accoltellamenti, nel quartiere di Buenos Aires dove si trova la casa dei nonni. E Francesco Spiedo, che racconta la storia di un fantasma scrittore il quale, ogni giorno, a pagamento, redige letterine di Natale per conto di bambini di tutto il mondo. E poi ci sono Albani, Mammi, Sara Ricci e tanti altri autori e altre autrici… sono arrivato a circa metà libro, non ho ancora finito di leggerli tutti. E le illustrazioni di Chiara Nott, Paolo Beneforti, Alberto Piancastelli e molti altri. 23 autori in tutto e 17 illustratori.

Qui sotto infine un’ultima descrizione del volume, sempre dal sito di Exòrma, e l’elenco completo degli autori e degli illustratori.

Agli autori e alle autrici di questi racconti non manca una buona dose d’ironia e quella lucidità che permette di osservare la realtà nelle sue contraddizioni andando oltre l’ordine rasserenante e conciliante delle cose. Appassionati, generosi e idealisti, credono ancora nell’imprevisto, nel caotico, nel sorprendente come possibilità di riformulare il mondo. Un’antologia dove comicità, letterarietà e satira si intrecciano, in cui il Natale diventa l’espediente per raccontare la nostra realtà.

Con i racconti di: Paolo Albani, Roberto Barbolini, Marita Bartolazzi, Adrián N. Bravi, Emanuela Cocco, Raffaella D’Elia, Tommaso Lisa, Giovanni Maccari, Luigi Malerba, Gianfranco Mammi, Paolo Miorandi, Paolo Morelli, Mauro Orletti, Paolo Pergola, Sara Ricci, Jury Romanini, Massimo Roscia, Giuseppe A. Samonà, Giacomo Sartori, Francesco Spiedo, Stefano Tonietto, Mario Valentini, Andrea Zandomeneghi

e le illustrazioni di: Paolo Beneforti, Marco Berlanda, Carlo Bordone, Nicoletta Calvagna, Giuditta Chiaraluce, Virgilio Cinque, Cecilia Cosci, Claudia D’Angelo, Jessica Lagatta, Tommaso Lisa, Fabio Magnasciutti, Marco Filicio Marinangeli, Chiara Nott, Andrea Pedrazzini, Alberto Piancastelli, Luciano Ricci, Lorenzo Santinelli

https://www.exormaedizioni.com/catalogo/buon-natale-perfidia/

Bisogna evitare i moralismi

Panizza oggi pomeriggio deve andare a scuola di suo figlio per un colloquio con i professori. Esce di casa a piedi.

Passa sotto il balcone di un’anziana signora che ha un cane che sta sempre a pascolare tra balcone e salone, tra salone e balcone. Non esce mai di casa, il cane, fa dentro tutto.

Anche oggi la signora sta parlando animatamente con il cane. Gli dice di smetterla, di non abbaiare. Glielo dice sempre, in continuazione, al cane, che non deve abbaiare, la signora.

In quella casa ogni giorno c’è una guerra, che fa da contrappunto a quella che viene dalla televisione sempre accesa. Il cane abbaia e la signora gli dichiara che gran sbaglio ha fatto a prendere lui come cane e gli chiede: “come devo fare con te?”.

La signora, sempre, ogni giorno, quando Panizza passa sotto il suo balcone, è indaffarata a tener dietro al cane. Pulisce i suoi escrementi, lo caccia via, lo rimprovera, lo maledice, lo redarguisce per avere combinato del danno in casa.

Panizza passando per strada ascolta le sue parole e non capisce se questo rapporto tra i due, la signora e il suo cane, sia una forma disperata di infelicità senza nessun tipo di soluzione o solo un modo di tenersi compagnia, anche se tormentato. E pensa che forse a un certo punto, per un gran numero di persone, arriva un momento nella vita che stare in compagnia, anzi avere compagnia sia soprattutto augurarsi che esista ogni giorno qualcuno di cui lamentarsi o da maledire. Insomma, si chiede Panizza, quello tra il cane e la signora è un rapporto voluto o solo subito, è anche un’opportunità o solo una condanna? Senza darsi nessuna risposta Panizza va avanti, procedendo con pochi tentennamenti verso la scuola di suo figlio.

Camminando si guarda le scarpe o guarda l’asfalto della strada. Ha fretta. Gli capita più spesso di guardarsi le scarpe quando ha fretta piuttosto che quando cammina con calma. Poi ci pensa su. Non gli piace questa abitudine che ha, di guardarsi le scarpe mentre cammina per strada. Meglio alzare la testa e guardare tutt’intorno le case e il cielo più in là.

Poi continuando a camminare Panizza passa per una strada stretta. Trova una macchina con le quattro ruote sul marciapiede. Deve scendere dal marciapiede e incominciare a camminare sulla strada carrabile. Passa un’auto a gran velocità, Panizza sbanda, sta per finirle sotto le ruote. Pensa: per colpa di un’automobile stavo per finire sotto un’altra automobile. Panizza odia le automobili, le considera la peggiore iattura che sia capitata all’uomo dai tempi della creazione. Detesta la figura storica di quel gran genio dell’imprenditoria che è stato Henry Ford, il primo a farne un bene di consumo accessibile a molti. Lo considera una specie di genio del male. Gli piacciono invece molto le biciclette e i monopattini elettrici. Pensa: se fossero rimaste solo dei bolidi destinati ad andare nelle piste io e le automobili potremmo anche andare daccordo. Sogna una città fatta di larghi marciapiedi tutti destinati a pedoni, biciclette e monopattini con una sola piccola corsia al centro creata per fare defluire qualche auto che non può proprio farne a meno di passare di lì.

Intanto è arrivato nella via pedonale del centro storico in cui si trova la scuola del figlio. Una larga strada tra antichi e bellissimi palazzi, fittissima di persone che camminano. Quasi tutti turisti. Non si riesce quasi ad andare avanti per quante persone ci sono ed è come se bisognasse in continuazione aspettare un turno per infilarsi tra la gente e scendere per la via. E mentre cammina, viene sfiorato da una bicicletta che va a gran velocità, poi da un motorino elettrico, poi subito dopo da un’altra bicicletta. Capisce che sono ragazzini che stanno facendo un gioco: andare a tutta velocità, in discesa, lungo la strada, facendo zig-zag per evitare i pedoni. Pensa: è una specie di sfida mortale come quelle che facevo io a dodici anni con i miei amici, ad esempio camminando per due-trecento metri su un muretto a strapiombo su una strada sottostante. Uno strapiombo, lì sotto, di almeno cinquanta metri di altezza. Pensa: non bisogna scadere nel moralismo, guai a scadere nel moralismo. Pensa: nelle sfide che facevamo a dodici anni però eravamo noi a rischiare di continuo di spezzarci l’osso del collo, non progettavamo di spezzarlo agli altri inconsapevoli passanti.

Pensa: quello che ho appena pensato è proprio un pensiero moralista? Evita di darsi una risposta ma getta delle gran urla contro i tre in bicicletta e in motorino che lo hanno appena sfiorato gridandogli contro le peggiori bestemmie imparate nei suoi anni di vita proprio a partire dall’età di dodici anni. Ecco, pensa a questo punto con sollievo Panizza, sicuramente gli insulti e le bestemmie non rientrano nella categoria dei moralismi.

[altre storie sulle giornate di Panizza si possono leggere qui: https://www.mariovalentini.net/litigare-stanca/ ]

Perdere tempo ovvero l’immortalità secondo Patrizia Cavalli

A che servono dei taccuini se non a prendere appunti?

Da un po’ di tempo presto una certa attenzione a tutto ciò che parla del tempo che passa. Qualche mese fa avevo messo su questi taccuini dei brevi pezzi scritti dai miei studenti a partire da un racconto di Gianni Celati, che si intitola appunto Tempo che passa, pubblicato in Narratori delle pianure. Si possono leggere qui: https://www.mariovalentini.net/ricordo-di-gianni-celati-attraverso-i-racconti-dei-miei-studenti/

In quel racconto una giovane donna fa ogni sera in automobile la strada che dal lavoro la riporta a casa sua, attraversando una campagna in cui si respira una nuova solitudine quasi cittadina, con famiglie rinchiuse nelle loro villette residenziali, a difesa di un nuovo benessere, senza reciprocità, refrattarie all’esterno. E dunque guidando ogni sera l’automobile tra queste campagne ormai molto urbanizzate, quel paesaggio che attraversa, fatto di gente blindata in casa, le fa venire in mente il pensiero del tempo che passa come un continuo richiamo alla nostra mortalità.

Ogni tanto però rientrando a casa la donna si ferma in un bar che c’è lungo la strada, invaso da ragazzi che perdono tempo chiacchierando e ascoltando musica. E allora riesce a sbarazzarsi di questi pensieri sul tempo che passa. Alla fine che vuoi che sia, pensa la donna, che il tempo passi e che tutto vada dove deve andare.

Trovo in alcune poesie di Patrizia Cavalli qualche altro pensiero sul tempo che passa. Nella poesia che trascrivo qui sotto, ad esempio, sembrerebbe che il perdere tempo venga inteso, in modo abbastanza ironico, come un’ostinata forma di vita. Un mestiere, dice Patrizia Cavalli. E si sospetta che questo mestiere del perdere tempo sia molto simile all’ostinazione con cui chi scrive passa il tempo a scrivere. Il perdere ostinatamente tempo è forse un modo di sfuggire al pensiero del tempo che passa inteso come ossessione della morte. E dunque sarebbe anche una, certo strettissima, via d’accesso alla sospensione del passare del tempo, ovvero all’immortalità.

Che forse non è questo il mio mestiere?

Perdere tempo, questo è il mio mestiere,

e il bello è perdere quel che non si ha.

Ho perso tempo e certo non l’avevo

ma io perdendo prendo, anzi ricevo,

lusso supremo, la mia immortalità.

Altro non voglio infatti che essere immortale

qui in questa terra essere immortale, sospesa

in mezzo al tempo non più mio, esposta

e già finita, chiuso animale che certo

non risorge, giocando alle parole solo l’inizio.

da Patrizia Cavalli, Pigre divinità e pigra sorte, Einaudi, 2006, pag. 36

In Pigre divinità e pigra sorte c’è un’altra poesia che sembra andare in questa stessa direzione. Si parla di quella strana sospensione del tempo che è il tempo in cui si preparano le valigie prima di una partenza.

Questo tempo sabbatico

prima di una partenza, questo tempo

rubato al tempo, questo tempo non mio

né di altri, il tempo della valigia

e del ritardo, questo lusso sospeso,

questo margine ricco,

quando audace e irresponsabile posso

quello che neanche gli anni mi concedono,

dove accorrono i pensieri più negletti

e sono accolti, e tra un pigiama

e una camicia s’insedia maestoso

ma arrendevole il possibile […]

da Patrizia Cavalli, Pigre divinità e pigra sorte, Einaudi, 2006, pag. 33

Il tempo in cui ci si prepara al viaggio facendo le valigie, sembra dirci Patrizia Cavalli, è il tempo del possibile. Un tempo che sconfina oltre il tempo e lo sfida. E forse addirittura lo sconfigge. Poi invece il viaggio, quando comincia il viaggio, tutto cambia. Quello è tutto e solo tempo che passa.

Per avere qualche informazione in più sui due libri citati tra questi appunti, si può andare qui: https://www.feltrinellieditore.it/opera/narratori-delle-pianure-1-2-3/

e qui: https://www.einaudi.it/catalogo-libri/poesia-e-teatro/poesia/pigre-divinita-e-pigra-sorte-patrizia-cavalli-9788806182229/

Litigare stanca

Ieri, mentre andava a correre, nella piazzetta antistante alla villa, dove posteggiano abitualmente le macchine, Panizza vede due donne l’una di fronte all’altra. Una è appoggiata a una macchina, l’altra le è di fronte, molto vicina. Niente di strano, pensa. Due donne che parlano di cose intime. Si racconteranno segreti tutti loro. Si avvicina per attraversare il parcheggio e raggiungere il cancello di ingresso e si accorge che non stanno parlando. Si picchiano.

Tutt’e due hanno una mano sulla faccia dell’altra, a cui cercano di cavare gli occhi. Tutt’e due stringono con la seconda mano i capelli dell’altra, tirandoli più forte possibile. Non una parola gli esce di bocca: né insulti, né lamenti, né gemiti.

Panizza pensa alle recenti cronache cittadine, alle violenze che si sono consumate in strada tra l’indifferenza dei passanti. Pensa che è suo preciso dovere intervenire. Si avvicina dicendo ad alta voce alle due donne di smetterla di picchiarsi, rischiano di farsi male. In quel momento sopraggiunge sul luogo della rissa un signore che porta al guinzaglio un cane. Deve avere letto anche lui le recenti cronache cittadine. Anche lui pensa che sia suo preciso dovere intevenire. Grida anche lui che la smettano.

Un terzo signore, che nel frattempo sta passando di lì, sente lo stesso dovere civico di intervenire e così, presto, i tre uomini provano a separare le due donne, tirandole di qua e di là. Ma è inutile, non si staccano. Hanno una forza incredibile. Quando i tre riescono ad allentare un poco la morsa dell’una, l’altra prende campo e incomincia a scalciare più forte, o affonda ancora di più le dita sulla faccia dell’avversaria, per cavarle ben bene gli occhi. Passa un bel po’ di tempo e non se ne ricava nulla di utile.

Panizza capisce che non riusciranno a dividerle, molla la presa e si allontana di qualche metro. Anche l’uomo con il cane molla la presa, chiede a Panizza se gli può tenere il cane con il guinzaglio. Finalmente ha tutt’e due le mani libere e torna a tirare di qua e di là le due donne. Ma niente. La situazione non si risolve. Però a un certo punto, quanto meno, si capisce finalmente il motivo della rissa perché una delle due, che è bruna , dice all’altra, che è bionda: «Ti futtisti mé maritu». Che è una frase in dialetto e può voler dire due cose: che le ha rubato il marito oppure che se l’è fatto, cioè ci è andata a letto.

La frase è rivolta alla rivale, ma sembra più che altro un’informazione data a Panizza e agli altri intervenuti sulla ragione di quella contesa e soprattutto sulle sue, di ragioni. Poi anche l’uomo del cane molla la presa e si avvicina di nuovo a Panizza, il quale gli dice: «Che dobbiamo fare se non la smettono, chiamiamo la polizia? Queste rischiano di farsi male!». Intanto è rimasto solo il terzo uomo a tirare e a spingere per separarle.

Ma in quel momento, di punto in bianco e senza nessun preavvertimento, la situazione cambia. Una delle due, la bionda, quella che si è fatta il marito dell’altra, dice alla rivale: «Ora basta ca sugnu stanca». E come se nulla di particolare fosse successo fino a quel momento, lentamente e, verrebbe da dire, quasi con calma e rilassatezza, molla la presa rassettandosi i vestiti. Anche l’altra a sua volta molla la presa.

Così ora stanno immobili tutt’e due, una di fronte all’altra, apparantemente tranquille, in silenzio. I tre uomini cos’altro possono fare? Non hanno motivo di rimanere lì più a lungo. La contesa è finita, il litigio si è spento. L’uomo con il cane fa un altro giro, il terzo uomo si allontana verso il fondo della piazza e va a farsi i fatti suoi da altre parti mentre Panizza può finalmente entrare in villa e mettersi a correre. E intanto pensa: «Bastasse così poco per mettere fine a una guerra! Sarebbe tutto molto più facile».